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03 April 2021

Supply Chain 2021: la resilienza non viene dall’autarchia ma da fonti diverse di approvvigionamento.

Per buona parte di settimana, il canale di Suez è stato bloccato da una nave di 200.000 tonnellate. La Ever Given non è solo una delle più grandi navi container del mondo, è anche l'emblema di una reazione che accusa la globalizzazione di essersi spinta troppo oltre. Dall'inizio degli anni '90 le Supply Chain sono state gestite per massimizzare l'efficienza. Le imprese hanno cercato di specializzarsi e di concentrare compiti particolari in luoghi che offrono economie di scala. Ora, tuttavia, ci sono crescenti preoccupazioni che, come una nave troppo grande da governare, le Supply Chain siano diventate una fonte di vulnerabilità.

Le catene globali del valore hanno da un lato permesso di ridurre i costi di produzione di molti beni, con vantaggi per i consumatori, e dall’altro hanno liberato risorse finanziarie e capitale umano affinché ci si potesse dedicare a produzioni a maggior valore aggiunto, che spesso vengono a loro volta esportate.

Ora una carenza di semiconduttori sta costringendo le aziende automobilistiche a fermare gli impianti in tutto il mondo. La Cina ha imposto un boicottaggio digitale di H&M, che non sembra disposto a rifornirsi di cotone dallo Xinjiang, dove il partito comunista sta rinchiudendo gli uiguri e li spinge ai lavori forzati. L'Unione europea e l'India hanno messo un freno alle esportazioni di vaccini, interrompendo gli sforzi del mondo per far arrivare i vaccini. Mentre combattono la pandemia e affrontano le crescenti tensioni geopolitiche, i governi di tutto il mondo stanno passando dalla ricerca dell'efficienza a un nuovo mantra di resilienza e autosufficienza.

Quando è in gioco la sicurezza nazionale, i governi hanno un ruolo nel rendere le forniture più sicure. Eppure il mondo deve evitare una fuga indietro dalla globalizzazione che non solo causerebbe grandi danni, ma creerebbe anche nuove vulnerabilità impreviste.

Negli Stati Uniti,  è in atto un cambio di priorità dal sostegno a consumatori ed esportatori alla protezione dei diritti e degli interessi dei lavoratori americani. Conseguenza sarà una progressiva riorganizzazione e accorciamento delle loro catene globali del valore, che porti a un più alto grado di autonomia produttiva, anche in chiave di sicurezza degli interessi strategici nazionali.

Contestualmente, per garantire la continuità produttiva molte imprese stanno modificando le proprie politiche di approvvigionamento da just-in-time, che prevede l’arrivo dei componenti nel momento in cui entrano nella catena di produzione, a just-in-case, con un magazzino ben fornito. Questa scelta, possibile solo per certi generi merceologici, garantisce la sicurezza delle forniture, ma prevede dei costi maggiori.

Per alcuni settori, come quello energetico, la necessità di sicurezza derivante da sistemi ridondanti con diversificazione dei fornitori e ampi depositi supera il costo che queste strutture comportano. L’Ever Given, ad esempio, ha bloccato momentaneamente l’approvvigionamento di idrocarburi per l’Europa da quella rotta, senza però intaccare la sicurezza energetica del continente. Per altre forniture, tuttavia, queste politiche così costose di stoccaggio non sono giustificabili.

Le catene di approvvigionamento comprendono alcune delle forme più sofisticate di attività umana. L'iPhone si affida alla rete di produzione della Apple, a cavallo di 49 paesi; la Pfizer, campione di vaccini, ha oltre 5.000 fornitori. Ma l'incessante ricerca dell'efficienza ha portato a scorte basse e punti di strozzatura. All'inizio della pandemia, gli elettori e i politici erano inorriditi dalla corsa alle mascherine. Più della metà dei semiconduttori avanzati sono fatti in pochi stabilimenti a Taiwan e in Corea del Sud. La Cina lavora il 72% del cobalto mondiale, usato nelle batterie delle auto elettriche.

L'appello per l'autosufficienza fraintende anche l'equilibrio tra i costi dell'interdipendenza, che sono brevi e visibili, e i suoi benefici, che arrivano mese dopo mese senza essere annunciati. Le efficienze perdute e le spese di duplicazione delle catene di produzione condivise sarebbero rovinose: le imprese hanno 36 trilioni di dollari investiti all'estero. L'accumulo di costi, dato che le imprese nazionali sono state protette dalla concorrenza con sussidi o tariffe, sarebbe una tassa nascosta sui consumatori. E dopo tutto questo, una politica di autosufficienza finirebbe per penalizzare i paesi troppo piccoli o poveri per ospitare industrie avanzate. Se la produzione finisse per concentrarsi in casa, anche le grandi economie sarebbero esposte agli shock locali, alle lobby e ai difetti dei loro stessi produttori, come l'America potrebbe scoprire con Intel.

La resilienza non viene dall'autarchia, ma da fonti diverse di approvvigionamento e dal costante adattamento del settore privato agli shock. Nel tempo, le aziende globali si adatteranno a minacce anche a lungo termine, comprese le tensioni tra America e Cina e gli effetti del cambiamento climatico, modificando gradualmente dove fanno nuovi investimenti. Questo è un momento pericoloso per il commercio. Proprio come la globalizzazione genera apertura, così la protezione e i sussidi in un paese si diffondono al successivo. La globalizzazione è il lavoro di decenni. Non lasciamo che si incagli. 

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