Logistica post-covid: da just-in-time a just-in-case con visibilità in tempo reale resa possibile da IIoT e AI.
C’era una volta una catena di forniture globali che guardava molto ai costi della supply chain e poco ai rischi. Le aziende delocalizzavano in lontani Paesi a basso costo del lavoro, riducendo ai minimi termini la loro presenza fisica nei ricchi Stati dove la produzione è cara e le tasse sono alte. Una strategia che ha allungato a dismisura le supply chain globali, con semilavorati e prodotti finiti che percorrevano mezzo giro del mondo prima di arrivare al consumatore finale.
Il modello globale fino all’arrivo del Covid
Questo modello di supply chain globale, basato sulla produzione low cost delocalizzata dall'altra parte del mondo, ha funzionato egregiamente per oltre un ventennio. Poi è arrivato il Covid, con la sua caotica serie di chiusure e lockdown, e il collaudato modello è crollato come un castello di carte: nelle prime settimane della pandemia, un sondaggio McKinsey riportava che il 73% delle imprese ha avuto difficoltà con i propri fornitori.
L’imperativo oggi è “ricostruire in fretta la propria supply chain”. Sì, ma in che modo? Abbandonando la filosofia del “just-in-time” per tornare al passato del più tradizionale “just-in-case”. Spieghiamo bene in cosa consistono i due modelli.
Il modello just-in-time
Sviluppato in Giappone nel secondo dopoguerra, il modello just-in-time mira all’eliminazione di ogni tipo di spreco, in fabbrica e nelle catene di fornitura. Un’efficienza totale. Nella sua accezione più ristretta, anzi, significa produrre solo quanto richiesto dal cliente nei tempi voluti dal cliente.
Quello che il just-in-time considera “spreco” si colloca lungo tutto il processo produttivo, includendo sia le fasi a monte con i fornitori, sia quelle a valle con i clienti, e comprende tutte le scorte di materie prime, di semilavorati e di prodotti finiti che non sono necessarie per soddisfare la domanda del cliente finale in tempo, nella qualità e quantità desiderate.Qualche tecnica di management just-in-time? La diminuzione dei lotti di produzione, il contenimento dei tempi del ciclo e il miglioramento dei tempi di riattrezzaggio dei macchinari.
Il modello just-in-case
Contrapposto al just-in-time è il più tradizionale modello just-in-case, che prevede di stoccare materia prima e prodotti finiti in anticipo, disponendo di scorte sufficienti in ogni momento: lo stock in eccesso viene conservato in magazzino, in modo da evitare problemi in caso di interruzione della supply chain.
Il just-in-case non mira all’efficienza assoluta e all’eliminazione di ogni tipo di spreco come il just-in-time (che in pratica prevede di fabbricare solo in presenza di un ordine), ma alla sicurezza della fornitura, a colpi di magazzino.
La logistica post Covid
La pandemia, con la sua catena di lockdown globali asincroni e i conseguenti colli di bottiglia, ha costretto le aziende a rivoluzionare la logistica, abbandonando il mantra della ricerca dell’efficienza assoluta e del taglio dei costi del just-in-time.
Se prima del Covid un container impiegava tra i 17 e i 28 giorni per partire da Shanghai e arrivare a Los Angeles, oggi questi tempi sono quasi raddoppiati arrivando fino a 52 giorni, con costi aumentati e margini difficili da difendere. Impossibile in queste condizioni mantenere le vecchie catene di fornitura, lunghe, complesse e vulnerabili.
La corsa ai magazzini
Le multinazionali hanno così rispolverato il vecchio modello just-in-case: riempire i magazzini di merce per non correre il rischio di incappare nei colli di bottiglia logistici. Meglio spendere qualcosa di più ma evitare di restare completamente bloccati.
Il problema è che la corsa all’accumulo di materie prime, semilavorati e prodotti finiti ha provocato una simmetrica impennata dei costi di immagazzinaggio.
Sì, perché gli spazi si sono ridotti ai minimi storici: l’indice Us Industrial Vacancy Rate, che misura l’estensione dei magazzini non utilizzati, è sceso nel terzo trimestre 2021 a minimi record mai visti nella storia (3,6%), con gli affitti medi diventati più cari del 3,1% rispetto al trimestre precedente e ben del 10,4% se confrontati a quelli di un anno prima.
In California, punto d’arrivo di buona parte dei bastimenti cinesi, il vacancy rate è addirittura precipitato allo 0,7%.
L’aspetto tech: la logistica in tempo reale
Per evitare di cadere dalla padella di traballanti catene di fornitura globali alla brace di costi di immagazzinaggio stellari, le imprese più ispirate si sono rivolte alla tecnologia: ovvero a sistemi di tracciamento in tempo reale della propria supply chain, nave per nave e camion per camion, in modo da intervenire al volo per cercare di tappare ogni falla nella logistica.
È il caso dei “digital trackers” di Bmw, in grado di individuare ogni potenziale criticità nella catena di forniture con tracciamenti a pioggia e algoritmi predittivi. «Se hai buone informazioni sulla tua supply chain riesci a ridurre il buffer di magazzino», spiega Volker Blume, responsabile della logistica del colosso automobilistico bavarese.
I principali fornitori dell’automotive tedesco (da Bosch a Siemens passando per Schaeffer) hanno anzi deciso di unire le loro forze fondando Catena-X, un’alleanza focalizzata su tecnologia e data sharing per cercare di anticipare eventuali problemi nella supply chain di centinaia di subfornitori minori.
Il modello «local for local»
Altre multinazionali hanno invece optato per il modello “local for local”, riscoprendo i fornitori di prossimità, che con i costi di trasporto e immagazzinaggio volati alle stelle si sono rivelati più economici, oltre che affidabili, di quelli dei Paesi emergenti. E per giunta “ecologicamente corretti”: ciliegina sulla torta, nel caso dell'Europa i modelli “local for local” sono in grado persino di intercettare qualche finanziamento del piano Next Generation Ue, quelli destinati alla green transition del Vecchio Continente.
Il reshoring delle produzioni
Ma c’è anche chi sta pianificando di tornare alla logistica delle origini: quella della produzione industriale a chilometro zero. Anche perché, al di là della fragilità della supply chain globale, alcuni degli storici vantaggi della delocalizzazione nei Paesi emergenti stanno riducendosi a vista d’occhio: da una parte per esempio il costo del lavoro sta aumentando anche in Cina, dall’altra l’accordo globale siglato da 131 Paesi sulla corporate tax - unito agli incentivi di alcuni Stati sul reshoring - sta spingendo le strategie aziendali verso il rimpatrio delle produzioni.
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